Mauro Bolognini nasce a Pistoia nel 1922. Frequenta il liceo Classico “Forteguerri”, quindi intraprende gli studi di architettura che non poco lo influenzeranno nella propria concezione del cinema. Perfeziona poi le sue spiccate attitudini figurative durante il Corso di scenografia al Centro Sperimentale di Cinema, diventando aiuto-regista di Luigi Zampa, figura di rilievo del neorealismo e anche di cineasti transalpini come Yves Allegret e Jean Delannoy. L’approdo al lungometraggio avviene con Ci troviamo in galleria che, se non altro, rivela in una piccola parte una giovanissima Sophia Loren. Seguono un paio di commedie di meriti non particolari fino a Gli innamorati, del ’55, che è un risultato interessante sia per la leggerezza con cui si raccontano gli amori di diverse coppie sia per l’abilità nella direzione di un manipolo di promettenti giovani attori: è questo certamente uno dei pregi più rimarchevoli del regista pistoiese. Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo – titolo chilometrico di almeno quindici anni in anticipo su quelli wertmulleriani - è anch’essa una commedia divertente sorretta dalle robuste spalle dei migliori attori comici nostrani: Sordi, Peppino De Filippo, Aldo Fabrizi, Gino Cervi, Nino Manfredi – un cast da leccarsi i baffi. Non banali ritratti dell’Italia della ripresa appaiono anche Marisa la civetta, con un’Allasio scintillante, I giovani mariti e Arrangiatevi!, film in cui Bolognini incontra “il principe della risata” Totò, una riflessione pungente all’indomani della legge Merlin. Con La notte brava, per alcuni uno dei suoi esiti migliori, Bolognini descrive il degrado delle borgate della periferia romana che Pasolini, non a caso qui co-sceneggiatore, aveva tanto acutamente descritto nel dittico romanzesco Ragazzi di vita e Una vita violenta. Nel 1960, con Il Bell’Antonio, si apre una nuova maniera nel viatico dell’artista giacché egli si sofferma con maggiore accuratezza sulla resa formale e la confezione dei suoi lavori, da qui in avanti, conoscerà una raffinatezza più ricercata –che talvolta sarà accusata, non sempre con ragione, di calligrafismo. Inoltre Il Bell’Antonio assume un’importanza primaria nella carriera bologniniana poiché si tratta del suo primo grande lavoro tratto da un’opera letteraria, il bellissimo romanzo di Vitaliano Brancati, che il regista trasporta dall’epoca fascista a quella in cui il film è girato ovvero a cavallo fra il decennio dei Cinquanta e dei Sessanta. L’ "istanza di attualizzazione" (Simona Costa) attira più volte Bolognini, ad esempio ne La Viaccia, in cui il regista rilegge con molte varianti il romanzo d’impronta verista dell’amiatino Mario Pratesi, L’eredità, dimostrandosi comunque “uno dei più fini metteur en-scene” del cinema italiano” (Maurizio Del Vecchio). Succede lo stesso nello sveviano Senilità, in cui il tempo della storia viene fatto slittare da quello post-risorgimentale del romanzo a quello tra le due guerre del film. Con La giornata balorda il regista opera una sorta di approfondimento dei temi già filmati ne La notte brava, con Agostino si confronta per la prima volta con un lavoro di Alberto Moravia, uno dei suoi referenti letterari più frequenti (girerà per la televisione, addirittura, un suo libro, Gli indifferenti). La corruzione è l’ultimo lungometraggio prima della lunga parentesi dedicata ai film a episodi, tanto in voga allora, il più conosciuto dei quali è con ogni probabilità Le fate, del 1966. Usufruisce poi di un cast internazionale, come sovente gli accade, per Arabella e di una diva del calibro della Lollo per Un bellissimo novembre dopodiché firma forse il suo film più bello e giustamente più celebre, Metello, opera anch’essa di stretta matrice letteraria perché tratta dall’omonimo romanzo di Vasco Pratolini che, dopo qualche titubanza, apprezzò molto la riduzione cinematografica.
Ottavia Piccolo, per questo film, ottenne il premio di migliore attrice al Festival di Cannes, così come accadrà sei anni più tardi alla Dominique Sanda de L’eredità Ferramonti, esito non trascurabile di un modesto romanzo di fine Ottocento del massese trapiantato a Roma Gaetano Carlo Chelli. Bolognini s’infiltra in uno scandalo felsineo di inizio Novecento in Fatti di gente perbene e pone il suo sguardo, sempre garbato, sul ventennio fascista in Libera, amore mio, quarto ed ultimo sodalizio con Claudia Cardinale. Vira poi al grottesco e macabro (insieme ai coevi Brutti, sporchi e cattivi di Scola e Casotto di Sergio Citti) con Gran bollito, anche se la stagione più felice sembra ormai conclusa. Nondimeno riesce sempre a impiegare attori di rango internazionale, come Isabelle Huppert in La storia vera della signora delle camelie e Liv Ullmann in Mosca addio – fatto sintomatico del prestigio di cui ancora Bolognini gode all’interno dell’industria cinematografica. Firma infine un personalissimo atto d’amore nei confronti della propria città natale con il documentario Giorni di Pistoia, del 1983 e, in occasione dei Mondiali di calcio di “Italia ‘90” gira la clip sulla città di Palermo, una delle città che ospitò la manifestazione. Non può essere dimenticata, ché farebbe torto alla poliedricità dell’autore, l’attività teatrale e lirica di Bolognini che, in tal senso, dev’essere ritenuto regista di prim’ordine, al fianco di Ingmar Bergman e Zeffirelli. Ha curato il Sogno di una notte di mezza estate shakespiriano e Filumena Marturano di Eduardo, da cui De Sica trasse Matrimonio all’italiana. Tra le opere debbono essere menzionate almeno quelle verdiane (La traviata, Rigoletto e Aida) e quelle pucciniane (Tosca, Madama Butterfly e La fanciulla del West). Bolognini è regista di molti meriti, alcuni dei quali accennati in questo breve profilo, e ci pare che la sua figura attenda ancora di essere collocata nel posto che realmente gli spetta nel panorama del cinema italiano. È stato uno di quei registi che, forti di una conoscenza tecnica e figurativa ottima e di un gusto personale della messinscena, è emerso insieme ad un nutritissimo gruppo di altri validi colleghi difficilmente ripetibile, in un momento in cui la stragrande maggioranza della critica ufficiale non aveva occhi che per i giganti Fellini, Visconti, Antonioni. Oggi ci sembrerebbe opportuno che l’intera sua opera andasse non dico riscoperta – perché non ne ha bisogno - ma di certo rivista e riaffrontata con un’ottica più approfondita. Francesco Sgarano
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